Fatto e diritto

(TAR regionale della Sicilia - 396 - 28 luglio 2010)

Il ricorso n. 1592/2009 in esame ha ad oggetto il decreto 20 agosto 2009, n. 1676, dell'Assessore per la Sanità della regione Sicilia.

Con le ordinanze cautelare nn. 965, 966 e 967, rese a seguito di impugnazione del predetto decreto, questa Sezione ha ritenuto fondato il profilo di censura dedotto in ordine alla violazione dell'art. 8-quinques del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (introdotto dall'art. 8, comma 4, d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229).

In particolare, si è osservato nelle citate ordinanza che ai sensi della predetta disposizione normativa, «l'Amministrazione competente deve essere individuata unicamente nelle singole Aziende Sanitarie Locali, cui corrispondono in Sicilia (ai sensi della legge regionale n. 5/09) le neoistitutite Aziende Sanitarie Provinciali».

Successivamente a tali provvedimenti, con decreto 17 dicembre 2009 è stato modificato l'art. 1, comma 1, del decreto 20 agosto 2009, nel senso che «l'ammissione alla fruizione del trattamento sostitutivo della funzione renale presso centri di dialisi privati accreditati deve essere preventivamente autorizzata dall'azienda sanitaria provinciale di appartenenza, sulla base di una certificazione rilasciata da un medico specialista nefrologo da essa dipendente o convenzionato, che attesti l'insufficienza renale cronica terminale e la necessità del trattamento sostitutivo».

Il Decreto 17 dicembre 2009 - impugnato con il ricorso n. 474 del 2010 - precisa poi che risultano confermate «tutte le altre disposizioni del decreto n. 1676/09».

Vengono pertanto ora all'esame del collegio le censure rivolte avverso il contenuto dispositivo del Decreto impugnato, superata -con l'anzidetta modifica - quella relativa alla competenza.

I ricorso devono essere preliminarmente riuniti, stante l'evidente connessione oggettiva e soggettiva.

Il Decreto in esame ha, in particolare, previsto che «L'ammissione alla fruizione del trattamento sostitutivo della funzione renale presso centri di dialisi privati accreditati deve essere preventivamente autorizzata dall'azienda sanitaria provinciale di appartenenza, sulla base di una certificazione rilasciata da un medico specialista nefrologo da essa dipendente o convenzionato, che attesti l'insufficienza renale cronica terminale e la necessità del trattamento sostitutivo».

Nel preambolo del Decreto impugnato viene indicato, come base normativa dello stesso, l'art. 8-quinquies, comma 2, lett. b), ultimo periodo, del predetto decreto legislativo n. 502/1992, introdotto dall'art. 79, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (aggiunto dalla relativa legge di conversione), ai sensi del quale «le regioni possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell'azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati».

La predetta norma attributiva del potere è stata inserita nel corpo di una disposizione (il citato art. 8-quinquies, comma 2, d.lgs. n. 502/1992) che disciplina:

a) gli obiettivi di salute e i programmi di integrazione dei servizi;

b) il volume massimo di prestazioni che le strutture presenti nell'ambito territoriale della medesima unità sanitaria locale, si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza.

In entrambi i casi, si tratta di dati ed obiettivi da stabilire con accordi e con contratti fra le regioni e gli operatori pubblici e privati della sanità, e non con atti unilaterali.

In questo contesto, relativo alla disciplina di un'attività di definizione concordata dei predetti obiettivi, il comma 1-quinquies dell'art. 79, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, ha introdotto la previsione di un potere autorizzatorio che le regioni possono prevedere in relazione ad alcune tipologie di prestazioni.

Detto potere è stato esercitato dalla Regione Sicilia con il Decreto impugnato.

Preliminarmente, osserva il collegio che la disposizione in esame è assolutamente chiara nell'impedire una interpretazione che consenta di ricondurre l'individuazione dei gruppi di prestazioni da sottoporre ad autorizzazione ad un'attività consensuale (nel qual caso il decreto impugnato sarebbe senz'altro illegittimo, per il sol fatto di aver provveduto in via unilaterale): sotto questo profilo il soggetto ed il verbo utilizzati dal legislatore («Le regioni possono individuare....») si differenziano nettamente, al punto da proporsi in chiave necessariamente derogatoria, rispetto all'analoga previsione di portata generale contenuta nella prima parte del secondo comma («La regione e le unità sanitarie locali (.....) definiscono accordi (.....) e stipulano contratti (....)».

Data la superiore premessa interpretativa, ad avviso del collegio, non appare manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale di tale disposizione (art. 8-quinquies, comma 2, lett. b), ultimo periodo, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502) per violazione del principio di legalità sostanziale (il cui fondamento costituzionale è ricondotto agli arti. 24, 97 e 113 della Costituzione).

Non si contesta, ovviamente, la previsione dell'attribuzione alle regioni del potere di introdurre una procedura autorizzatoria nel contesto della disciplina dell'accesso alla fruizione di prestazioni sanitarie presso strutture private accreditate (se non per il fatto che detta individuazione avvenga per atto unilaterale): ciò che appare non conforme al principio di legalità sostanziale è la mancata previsione dei criteri alla stregua dei quali detto potere dovrebbe essere disciplinato su base regionale, e conseguentemente esercitato dalle aziende sanitarie locali (trattandosi peraltro di un potere autorizzatorio il cui esercizio condiziona la fruizione di prestazioni salvavita).

Nei motivi di gravame si deduce eccesso di potere e violazione di legge in relazione alla disciplina del potere in parola.

Il problema legato alla base legale dell'atto risulta pertanto di carattere non formale, ma sostanziale.

In effetti non è dato comprendere quale sia la funzione dell'esercizio del potere autorizzatorio in esame: se di accertamento della sussistenza della patologia, e di necessarietà della terapia, quali presupposti per l'accesso alla fruizione della prestazione; ovvero di contenimento del ricorso a strutture private, per ragioni legate alla finanza regionale (profili, entrambi, che già costituiscono oggetto di altri e distinti momenti di verifica pubblicistica).

Lo scrutinio di dette censure, alla stregua del parametro normativo invocato dalla parte ricorrente (la norma attributiva del potere autorizzatorio), suppone la valutazione dell'esercizio del potere in conformità o meno con i criteri che la norma stessa detta per l'esercizio del potere autorizzatorio.

L'ampiezza e l'indeterminatezza di quest'ultima, tuttavia, fa sì che detti criteri non siano indicati - nè sono ricavabili aliunde, ricorrendo ad uno dei tradizionali criteri di interpretazione giuridica - dalla citata disposizione normativa.

Ritiene il collegio che nel caso in esame ricorra la «assoluta indeterminatezza» del potere demandato alla pubblica amministrazione «senza l'indicazione di alcun criterio da parte della legge» in violazione del principio di legalità sostanziale (sentenze n. 307 del 2003, 32 del 2009, 200 del 2009, della Corte costituzionale).

Come accennato, non possono trarsi elementi - se non nel senso, come si dirà, di un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale -dalla interpretazione sistematica della disposizione, giacchè essa è stata calata ex abrupto nel contesto della disciplina della definizione concordata (e, dunque, non unilaterale, ex latere auctoritatis) delle prestazioni fruibili presso strutture private.

L'inserimento della previsione di un potere autoritativo, non altrimenti disciplinato quanto ai presupposti e ai criteri del suo esercizio, nel contesto di una fattispecie consensuale, oltre a vanificare i risultati di quest'ultima, non soltanto non consente di individuare al di fuori dell'enunciato normativo gli eventuali criteri implicitamente regolanti l'esercizio di detto potere, ma rappresenta altresì un elemento di irragionevolezza della disciplina introdotta, con conseguente violazione anche dell'art. 3, primo comma, della Costituzione.

In effetti, secondo il complessivo disegno legislativo, è solo nel contesto di tali accordi con gli erogatori privati del servizio o con le loro organizzazioni rappresentative, che si collocano a monte dell'accreditamento, e non già mediante un provvedimento autoritativo unilaterale, la Regione potrebbe individuare prestazioni o gruppi di prestazioni suscettibili di essere preventivamente autorizzati dalle unità sanitarie locali.

A fronte della esistenza nel sistema di altri momenti di verifica, in chiave autorizzatoria, dell'accesso alla fruizione presso strutture private (autorizzazione per la realizzazione e l'esercizio della struttura sanitaria; procedura di accreditamento istituzionale; stipulazione degli accordi contrattuali di cui all'art. 8-quinquies cit.; fissazione del limite massimo di budget per ciascuna struttura), funzionali alla tutela dei diversi interessi pubblici che legittimamente limitano il principio di parità fra pubblico e privato ed il principio di libera scelta del medico, l'inserimento di un ulteriore condizionamento autorizzatorio, la cui connotazione funzionale non è affatto chiara, privo di una adeguata disciplina dei presupposti e dei criteri di esercizio, come tale irragionevolmente limitativo dei principi sopra richiamati, non pare conforme al parametro costituzionale della ragionevolezza.

Una così ampia e generica prescrizione normativa, ha del resto prodotto, in sede applicativa, una previsione altrettanto generica e poco perspicua: nel preambolo del Decreto impugnato si legge infatti che «Visto, in particolare, l'art. 8-quinquies, comma 2, lett. b), del predetto decreto legislativo n. 502/92, come modificato, in ultimo, dall'art. 79 del D.L. n. 112/2008, ai sensi del quale "le regioni possono individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell'azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati.", e ritenuto, conseguentemente, che le prescrizioni mediche ben possono essere sottoposte a controllo, indirizzo e verifica da parte della competente struttura sanitaria pubblica».

In argomento è appena il caso di osservare che non è lecito revocare in dubbio il fatto che le prescrizioni mediche possano «essere sottoposte a controllo, indirizzo e verifica da parte della competente struttura sanitaria pubblica» (con qualche riserva, peraltro, sul preteso potere di «indirizzo»): ma, a fronte di una serie articolata di momenti di verifica e di controllo propedeutici alla fruizione della prestazione - già determinati, funzionali ad altrettanti interessi pubblici, l'introduzione di un ulteriore controllo preventivo, condizionante la fruizione di una prestazione salvavita, presenta un elevato livello di conflittualità con i valori e gli interessi antagonisti, anch'essi dotati di rango costituzionale, che non appare giustificato da alcuna ragionevole esigenza.

Il collegio rileva infine l'esistenza di un terzo profilo di contrasto fra la disposizione in esame e gli articoli 3 e 117, comma 2, lett. m) della Costituzione.

La disposizione in esame non avrebbe potuto consentire alle singole regioni di "individuare prestazioni o gruppi di prestazioni per i quali stabilire la preventiva autorizzazione, da parte dell'azienda sanitaria locale competente, alla fruizione presso le strutture o i professionisti accreditati", quando si tratti di prestazioni o gruppi di prestazioni afferenti i livelli essenziali di assistenza, stabiliti con d.P.C.M. 29 novembre 2001, all. 1 (che include le prestazioni da fornire ai "nefropatici cronici in trattamento dialitico", e ai "pazienti nella fase terminale").

La disposizioni in esame contrasta pertanto con i richiamati parametri costituzionali, nella parte in cui non esclude i predetti livelli dal suo altrimenti indiscriminato ambito di operatività (derivante dalla sua formulazione attuale).

Attraverso la previsione di un simile potere si rende infatti maggiormente difficoltoso, su base regionale, l'accesso ad una prestazione inclusa fra i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie che invece non devono patire una differenziazione territoriale.

Del resto, anche laddove le prestazioni da fornire ai nefropatici cronici in trattamento dialitico non rientrassero fra i livelli essenziali di assistenza, la previsione del potere regionale in parola violerebbe gli artt. 3 e 32 della Costituzione, ponendo una limitazione ulteriore, differenziata territorialmente, all'esercizio di un diritto fondamentale.

E' appena il caso di aggiungere che la rilevanza della questione discende dal fatto che il vizio si appunta non sulla modalità con cui il potere è stato esercitato dal decreto impugnato (il cui oggetto specifico è peraltro costituito dalla "assistenza sanitaria ai pazienti con uremia terminale", ed il cui articolo 1 disciplina l'erogazione di prestazioni in materia di "insufficienza renale cronica terminale"), ma sulla norma attributiva del potere medesimo, alla cui stregua dovrebbero scrutinarsi le censure rivolte contro il ridetto decreto.

In sede di esame di tali censure, pertanto, il collegio dovrebbe utilizzare come parametro di legittimità una disposizione normativa della cui legittimità costituzionale dubita (e che per l'ampiezza della sua previsione, è tale da fornire, allo stato, copertura legale al decreto impugnato).

Come già osservato, in conseguenza della formulazione di tale disposizione, non appare al collegio possibile praticare una interpretazione della stessa che consenta di superare i denunciati profili di illegittimità costituzionale.